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domenica 20 dicembre 2020

Il profeta Maometto era davvero analfabeta?

Nascita di Maometto, Museo Topkapi
Quando ci avviciniamo alla figura e alla vita del profeta Maometto, non possiamo fare a meno di notarne una caratteristica in particolare, evidenziata tanto dai fedeli musulmani quanto da biografie e studiosi non solo di religione islamica: il presunto analfabetismo. Davvero Maometto non era in grado di leggere e scrivere? 

mercoledì 13 maggio 2020

La Notte del Destino

Miniatura raffigurante la rivelazione
Uno dei momenti più significativi e importanti del calendario musulmano è la Notte del Destino (in arabo لَيْلَةُ الْقَدْرِ, Laylat al-Qadr). Secondo la tradizione religiosa sunnita proprio in questa notte il profeta Maometto ha ricevuto la rivelazione del Corano dall’Arcangelo Gabriele. Vediamo cosa ci dice in merito il Libro Sacro musulmano alla Sūra 97, che si compone di soli 5 versetti:

lunedì 20 aprile 2020

Il Ramadan ai tempi del Coronavirus

    Embed from Getty Images


Quest’anno il Ramadan avrà un’atmosfera e un sapore diversi. La normale routine dei festeggiamenti verrà stravolta per evitare la diffusione del contagio. Forse in futuro questo momento verrà ricordato come il “Ramadan della quarantena” o “del lockdown”, oppure ancora il “Ramadan ai tempi della pandemia”. 

A pochi giorni dall’inizio del mese sacro, il prossimo 23 aprile (se sarà possibile l’avvistamento della Luna crescente), i musulmani sono divisi sull’opportunità di rispettare il digiuno, su come debbano pregare e festeggiare in questo periodo. Per quanto riguarda la preghiera, è ovvio che non sarà possibile recarsi in moschea o compiere il pellegrinaggio rituale a La Mecca. 

martedì 7 maggio 2019

Il Pakistan vieta i matrimoni prima dei 18 anni

Foto: Getty Images

Il Pakistan approva in Senato una legge che vieta i matrimoni prima dei 18 anni. Si tratta di una svolta importante per impedire il dramma, purtroppo attualissimo, delle spose bambine. 

Lo scorso 29 aprile il Senato pakistano ha approvato una legge che eleva l’età per contrarre matrimonio da 16 a 18 anni, modifica importantissima che consente una svolta sui diritti umani e, in particolare, su quelli dei minori nel Paese. La riforma si propone di ridurre “il rischio di matrimonio infantile prevalente nel Paese” e salvaguardare “la donna dallo sfruttamento”. 

domenica 31 marzo 2019

Brunei. Le nuove severissime leggi che fanno discutere

Il sultano del Brunei. Foto: Facebook. 
In Brunei, piccolo Stato nel Borneo, Sud Est asiatico, stanno per entrare in vigore nuove, severissime leggi basate sulla Shari’a, rivoluzionando il sistema penale. La notizia ha fatto il giro del mondo, raccogliendo durissime critiche.

Il prossimo 3 aprile, in Brunei, entreranno in vigore nuove leggi basate sulla Shari’a. Nel piccolo Stato situato nel Sud Est asiatico gli adulteri e gli omosessuali rischiano la lapidazione, mentre i furti verranno puniti con l’amputazione della mano e, in caso di recidiva, anche del piede. 

mercoledì 18 aprile 2018

L’Islam e l’ascesa della “moda modesta”

La moda è in continua evoluzione come il cammino dell’uomo e la Storia. Chi la considera una faccenda di poco conto, per ragazzine ossessionate dal look, oppure la riduce a un insieme di tendenze stagionali collegate alla smania di consumismo commette un grave errore.

La moda è molto di più di un post su Instagram; è specchio del tempo, riflette abitudini, regole, forme di ribellione, desideri, sogni, immagini, pensieri, fantasia, razionalità, ma coinvolge anche la società, il commercio, il lavoro di tantissime persone ed è costituita da tante tappe quante sono le epoche vissute dall’uomo (a tal proposito vi consiglio di riguardare il celebre dialogo tra Meryl Streep e Anne Hathaway nel film “Il Diavolo veste Prada).

Oggi stiamo assistendo a un nuovo cambiamento, osservando un riflesso diverso da quello che siamo abituati a vedere di solito: la “moda modesta” al femminile. In generale possiamo definire così un preciso codice di abbigliamento (e, quindi, solo per alcuni versi, di comportamento, ovvero un determinato modo di porsi, di stare in società) che viene declinato in diverse sfumature non solo nel mondo islamico, ma anche in quello occidentale, ovviamente con differenze rilevanti.

In questo articolo ci interessa analizzare la moda modesta dal punto di vista islamico, ma certo quello occidentale è altrettanto importante e ha a che fare con la volontà di andare controcorrente, preferendo abiti meno appariscenti, in una società in cui la vita quotidiana, i gusti, i viaggi, il corpo, i successi sono sovraesposti, spesso esibiti con un autocompiacimento malcelato.

Sulla moda modesta in senso occidentale potremmo scrivere pagine su pagine, ma perderemmo di vista la natura di questo blog. Torniamo, quindi, alla moda modesta secondo l’Islam.

Questa definizione risale al Duemila, con la nascita delle prime case di moda dedicate all’islamic fashion, come spiega la professoressa Reina Lewis nel suo saggio “Modest fashion: styling bodies, mediating faith”, (Tauris Academic Studies, 2013).

Devo ammettere che i termini “moda modesta” non mi convincono del tutto: le parole, spesso, vengono caricate di significati, di simboli che vanno oltre una semplice definizione. “Modesta” è un aggettivo impiegato, in questo caso, per contrapporre il costume islamico a quello occidentale; così facendo, però, dimentichiamo il fatto che non tutta la moda europea e americana può essere definita come “non modesta”.

Che cosa intendiamo davvero con “modesto”? Attenzione a non confondere quest’ultima parola con un’altra ben diversa, ovvero “castigato”. Non sempre i due termini sono sinonimi e certo non è detto lo siano né nella moda occidentale né in quella islamica.

La moda modesta nel mondo arabo e musulmano si sta sviluppando in modi molto interessanti ed eclettici, come vedremo. A questo punto si può obiettare che, per esempio, portare il velo può essere una forma di abbigliamento castigato (e non solo modesto), mentre portare una minigonna non lo è.

Dipende da ciò che intendiamo con la parola “bellezza”, ma anche di quali e quanti significati carichiamo simboli come il velo e la minigonna. Pensiamo a quante donne musulmane percepiscono la tradizione di velarsi come un modo per affermare l’identità e non una forma di castigo per il corpo.

Di contro, però, ed è giusto ricordarlo, per altre donne il velo è una costrizione imposta dall’esterno, un obbligo attraverso il quale “misurare” la genuinità della fede (anche per gli uomini esistono obblighi simili).

Aab Collection: https://www.aabcollection.com/
Ciò non fa che rendere la complessità dei concetti di moda, femminilità, bellezza, libertà nel mondo islamico e, quindi, l’impossibilità di ridurli a una visione o a termini troppo generici. Persino una minigonna può diventare una sorta di trappola se viene imposta come un abbigliamento da indossare “a tutti i costi” e a rigide condizioni senza le quali “non possiamo dirci belle”.

Qui non è la fede, ma la bellezza a essere “misurata”. (Fatima Mernissi, nel libro “L’Harem e l’Occidente”, asserisce che, per le donne occidentali, la taglia 42 rappresenta, al pari del velo per le donne musulmane, la vera oppressione, una sorta di harem, ovvero una gabbia da cui è molto difficile uscire). 

Si tratta, ovviamente, di forme diverse di costrizione, ma il risultato è lo stesso: incastrare persone e concetti in stereotipi, omologarle in ambito religioso, sociale, persino privato.

La percezione soggettiva degli obblighi, ma anche di noi stessi e i condizionamenti provenienti dall’esterno non hanno sempre dei confini ben delimitati e questo complica ulteriormente le cose.

I termini “moda modesta” fanno pensare a una mancanza di fantasia nella scelta dei tessuti, dei colori, nella creazione dei modelli, o ancora a qualcosa di lungo, senza forma, grigio e spento in contrapposizione a un tipo di moda più colorata, “scollata” e vivace, ma basta guardare l’ultima sfilata di abiti svoltasi a Dubai il mese scorso, nell’ambito dell’evento “A Modest Revolution” per renderci conto che la “modest fashion” è tutt’altro.

Per questi motivi trovo riduttivi i termini con cui ci si riferisce a questo tipo di moda. Non dobbiamo neanche pensare che si tratti di un settore di nicchia. I numeri, del resto, parlano chiaro: Reuters, insieme a Dinar Standard, riportano una spesa di circa 243 miliardi di dollari, nel 2015, per quel che concerne i capi d’abbigliamento e gli accessori della moda modesta nei Paesi islamici.

Ci si aspetta, per quest’anno, una notevole crescita di questo settore e di quelli relativi ai viaggi, alla cultura e al cibo. I Paesi che producono di più si trovano in Medio Oriente e in Asia. Parliamo di nazioni in ascesa economica, in cui si investe e si crea (tendenze, queste, in pieno sviluppo già da anni).

Gli stilisti non sono solo arabi musulmani; persino Dolce & Gabbana hanno realizzato, per la primavera/estate 2016 una linea chiamata “Abaya” pensata per le donne musulmane. Hijab, abaya, occhiali da sole coordinati, tessuti freschi e leggeri su cui dominano i ricami, le pietre, le stampe floreali e, soprattutto, i colori.

La prima modest fashion week si è tenuta nel 2014 a Istanbul e, da allora, lo stile islamico ha conquistato le passerelle di tutto il mondo, fino ad approdare, nel febbraio 2017, a Londra, la prima città europea ad aver ospitato l’evento. 

Impossibile, poi, non ricordare il Modest Fashion Festival tenutosi il 21 ottobre nella capitale inglese, a Grovesnor House. Questo appuntamento, fulcro della moda modesta di lusso, è nato dall’idea di Fahreen Mir e Sultana Tafadar con lo scopo di far conoscere lo stile islamico, abbattere i pregiudizi che lo circondano, far scoprire un nuovo modo di creare e pensare la moda.

Fahreen Mir è un’ematologa che lavora a Sutton, al Royal Marden Hospital, mentre Sultana Tafadar è un avvocato specializzato in diritto internazionale e dedica la vita al rispetto dei diritti umani.

Durante questo festival ha sfilato anche Halima Aden, la giovane modella musulmana di origini somale, nata in un campo profughi in Kenya e naturalizzata americana. Halima ha sfilato con l’hijab per Alberta Ferretti e Max Mara durante la Milano Fashion Week lo scorso anno e per la collezione di Yeezy Season 5 di Kanye West a New York (A.I 2017/2018).

La sua ascesa nel mondo della moda include una cover storica su Vogue Arabia (giugno 2017), in cui posa indossando il velo (fatto mai accaduto su una rivista occidentale), seguita da un’altra su Allure (luglio 2017).

Halima Aden è diventata un simbolo dello stile e della moda modesti, benché di lusso, un’icona che, prima di sfilare per Ferretti ha detto: “Voglio trasmettere un messaggio positivo che ha come tema la bellezza e la diversità. Voglio mostrare alle giovani donne musulmane che c’è spazio anche per loro”.

La moda modesta, dunque, non deve essere immaginata come una specie di “monolite” immutabile nel tempo. Esistono tanti stili quanti sono i Paesi islamici e ogni stile può essere personalizzato dalla donna che lo indossa. Inoltre ogni stilista crea abiti in base a precise idee che riguardano i concetti di femminilità, modernità, bellezza, lusso, stile appunto e che sono quasi totalmente soggettive e mai fisse nel tempo.

Lo scopo di molti creativi di questo settore è quello di rompere gli schemi e gli stereotipi (in teoria lo stesso discorso vale per la moda occidentale).

La modest fashion è in continua espansione e non conosce crisi. Si sta, pian piano, staccando (benché non del tutto) dai dettami religiosi per andare incontro alle esigenze e ai desideri delle ragazze e delle donne nel mondo moderno.

Una sfida che si sta giocando anche in Europa e negli Stati Uniti. Solo il tempo potrà mostrarci in che modo evolverà.


Bibliografia e sitografia

Lewis Reina, “Modest Fashion: Styling Bodies, Mediating Faith”, Tauris Academic Studies, 2013;

Mernissi Fatima, “L’harem e l’Occidente”, Giunti Editore, 2000;




mercoledì 8 marzo 2017

Buon 8 marzo!

Immagine tratta dall'articolo
C'è un personaggio che vuol fare gli auguri di un felice 8 marzo a tutte le follower del blog. Il suo nome è Toussaint Mervat bint Mahmoud al-Kabir.

E' una donna, prima di tutto, ma anche una principessa araba che ha deciso di combattere in nome di tutte le donne, a costo di essere rinnegata dal Paese in cui ha aperto gli occhi per la prima volta. Un'anima limpida e forte che non accetta compromessi...

Presto leggerete la sua prima storia.

Grazie alla Genesis Publishing per avermi dato la possibilità di far conoscere il mio personaggio. 

lunedì 13 giugno 2016

Il Ramadan tra Storia e religione

Immagine tratta da: http://www.oceanofwallpapers.com/

“O voi che credete, vi è prescritto il digiuno come era stato prescritto a coloro che vi hanno preceduto…Chi però è malato o è in viaggio, digiuni in seguito altrettanti giorni. Ma per coloro che a stento potrebbero sopportarlo c’è un’espiazione: il nutrimento di un povero…E’ nel mese di Ramadan che abbiamo fatto scendere il Corano, guida per gli uomini e prova di retta direzione e distinzione…”
(Corano, sūra II, al-Baqara, La Giovenca, 183-185)

Perché i musulmani celebrano il mese di Ramaḍān (رمضان)? Qual è  l’origine della tradizione del digiuno e quali precetti religiosi è necessario osservare? Quali sono le radici storiche di questo momento tanto importante per la comunità islamica?

Il Ramaḍān , che quest’anno cade tra il 7 giugno e il 5 luglio, è un periodo di purificazione e riflessione per i musulmani. Contrariamente a quanto sostengono alcuni, non si tratta di un mese in cui tutte le notti sono dedicate a festeggiamenti esagerati. Il Ramaḍān rappresenta, infatti, una sorta di “pausa” della mente, durante la quale dedicarsi non solo alla preghiera, ma anche all’attenta lettura del Corano e alla meditazione sul testo. I musulmani ricordano, in questi giorni, la Rivelazione del Libro Sacro al profeta Maometto, attraverso l’arcangelo Gabriele. Proprio per onorare tale Messaggio i credenti seguono il precetto del digiuno, che è anche uno dei Pilastri dell’Islam.


Immagine tratta da Wikipedia
Lo studioso Di Nola, nel saggio “L’Islam. Storia e segreti di una civiltà” (Newton Compton, 1998), spiega che tale uso è stato, con tutta probabilità, mutuato dal Cristianesimo e dall’Ebraismo. In un primo momento Maometto adottò “l’ʿĀshūrāʾ” (اشوراء), ovvero il giorno del digiuno, rifacendosi alla tradizione ebraica collegata allo Yom Kippur (“giorno dell’espiazione”); anche durante quest’ultima celebrazione, infatti, alcune azioni come mangiare, bere o avere rapporti sessuali sono rigorosamente vietate. Le relazioni diplomatiche tra il Profeta e il popolo ebraico, però, vacillarono per questioni politiche e religiose, dunque l’Āshūrāʾ assunse carattere facoltativo e il mese di Ramaḍān divenne, a tutti gli effetti, il periodo dell’astinenza obbligatoria.

A tal proposito si può aggiungere che la radice della parola Ramaḍān, ovvero “rmḍ” vuol dire “calore”: questo periodo, quando gli Arabi usavano ancora il mese intercalare per far coincidere l’anno solare e quello lunare (sistema abolito dallo stesso Maometto), cadeva nel bel mezzo dell’estate (ora la sua posizione, come si sa, è “mobile”, dal momento che i musulmani usano calcolare il tempo in base all’anno lunare, partendo dall’Egira, avvenuta nel 622 d.C.).

I malati, i viaggiatori, le donne incinte, le puerpere, le donne durante il ciclo mestruale e i bambini sono alcune delle categorie di persone che possono evitare il digiuno. Nei casi più gravi o, in generale, di evidente impossibilità, la dispensa è totale e può essere sostituita dall’elemosina; altrimenti è necessario recuperare i giorni in cui non è stato possibile osservare la tradizione religiosa. Per esempio un viaggiatore si trova in una condizione per cui il digiuno, una volta terminato il viaggio e se non vi sono altri seri impedimenti, può essere ripreso, recuperando il tempo “perduto”.

L’astinenza, quindi, fa parte di un più ampio percorso spirituale di espiazione ed è regolata in maniera molto dettagliata dal fiqh (الفقه‎ il diritto), in base al quale, tra l’altro, anche il fumo, i rapporti sessuali e l’alcol sono annoverati tra le cause di interruzione del digiuno. Questo percorso, ovviamente, riguarda sia il corpo che l'anima: durante il Ramaḍān è doveroso astenersi dai litigi, dalle bugie e dai pettegolezzi. Il fedele, insomma, deve cercare di mantenersi in uno stato di purità assoluta. Ogni giorno, prima dell’alba, questi dovrebbe formulare la “nīyya” (نية), cioè “l’intenzione” del digiuno.

Nella pratica, però, è ormai consuetudine fare tale dichiarazione solo una volta, al tramonto della notte che precede l’inizio del Ramaḍān. Di solito, poi, i musulmani preferiscono fare un pasto frugale prima che il sole si affacci all’orizzonte (sāḥūr) e solo dopo il tramonto interrompere il digiuno con un pasto più sostanzioso (faṭūr).

Il primo giorno del mese di Šawwāl (شوّال) si chiude ufficialmente il tempo della purificazione. Il Ramaḍān è appena passato (Ramaḍān e Šawwāl sono, rispettivamente, il nono e il decimo mese del calendario islamico) e il digiuno viene interrotto con la festa dell’ʻĪd al-Fiṭr (عيد الفطر‎‎), caratterizzata da sontuosi banchetti, dallo scambio di doni (destinati soprattutto ai bambini) e da un periodo di riposo da passare in famiglia.


La Notte del Destino

Si è già accennato alla celebrazione della Rivelazione durante il mese di Ramaḍān nell’anno 610. Il Corano narra questo evento fondamentale per l’Islam nella sūra al-Qadr,Il Destino”: “…Invero lo [in riferimento al Corano] abbiamo fatto scendere nella Notte del Destino…la Notte del Destino è migliore di mille mesi. In essa discendono gli Angeli e lo Spirito [in riferimento all’arcangelo Gabriele], con il permesso del loro Signore…E’ pace, fino al levarsi dell’alba” (al-Qadr, 96, 1-8).

Per tradizione la Notte del Destino (“Laylat al-Qadr” لیلة القدر‎‎) viene ricordata nella notte tra il 26 e il 27 di Ramaḍān. I fedeli musulmani si riuniscono nelle moschee o rimangono in casa a pregare, a leggere il Corano e a chiedere perdono per i peccati fino all’alba.

Il Libro Sacro racconta anche la “discesa” del Messaggio di Allah su Maometto: “Leggi! In nome del tuo Signore che ha creato…l’uomo da un’aderenza. Leggi! Che il tuo Signore è il generosissimo, Colui che ha insegnato mediante il calamo…all’uomo quello che non sapeva” (sūra “al-‘Alaq”, “L’Aderenza”, 96, 1-5).


Il Pellegrinaggio

Immagine tratta da: http://ramadanwallpapers.com/
Come ogni anno si prevede un’alta affluenza di pellegrini verso La Mecca per l’ḥaǧǧ (حَجّ), il pellegrinaggio. Proprio in vista di questo evento l’Arabia Saudita ha rafforzato i controlli e i sistemi di sicurezza.

L’Iran, stando alle notizie più attuali, ha sospeso il pellegrinaggio per tutto il 2016 adducendo come spiegazione la mancata sicurezza dei viaggiatori, soprattutto dopo gli incidenti avvenuti nella città sacra lo scorso anno; nella calca persero la vita 717 persone, tra cui circa 500 iraniani e ne rimasero ferite più di 800.

La questione ha dato origine a una vera e propria crisi diplomatica, a cui non sono estranei anche interessi economici, tra Iran e Arabia Saudita. A ciò si somma il valore religioso del pellegrinaggio, uno dei cinque Pilastri dell’Islam, su cui si sono basati i tentativi di mediazione.


Conclusione

Il mese di Ramaḍān rappresenta un momento di “connessione” tra l’uomo e la divinità. La consapevolezza di questo legame è presente in tutte le religioni, benché sia espressa in modi e tempi diversi.

Tale “connessione”, per chi crede, non si interrompe mai, ma rischia di rimanere nascosta tra gli impegni e la frenesia della vita quotidiana. I periodi di purificazione, preghiera e studio servono proprio a ritrovare “il filo” che collega la parte umana a quella divina, sono un’interruzione della quotidianità che spinge gli uomini alla ricerca interiore che li aiuterà ad affrontare l’esistenza seguendo la coscienza.


Bibliografia e sitografia

La Repubblica sugli incidenti a La Mecca:
Donner Fred, “Maometto e le origini dell’Islam”, Einaudi, Torino, 2011;
Mandel Gabriele, “Islam”, Electa, Milano, 2006;
a cura di Bausani Alessandro, “Il Corano”, Rizzoli, Milano, 2006;
Piccardo Hamza Roberto, “Il Corano”, Newton Compton, Roma, 2006;
Di Nola Alfonso, “L’Islam. Storia e segreti di una civiltà”, Newton Compton, Roma, 1998; Bausani Alessandro, “L’Islam”, Garzanti, Milano, 1999.

lunedì 2 febbraio 2015

Il Jihad, la lotta interiore e la guerra santa


La parola araba ǧihād è ormai entrata da molto tempo nel nostro vocabolario; in questi ultimi tempi la sentiamo spesso attraverso telegiornali o talk show, la leggiamo su magazine e libri e ogni volta evoca in noi evidenti e comprensibili sensazioni di paura e anche di confusione, di smarrimento verso qualcosa che non riusciamo a spiegarci fino in fondo, un pericolo che, forse, abbiamo sottovalutato.
Il ǧihād (termine maschile) viene associato esclusivamente a “guerra santa” rafforzando l’aspetto militare e bellicoso del concetto ma, nello stesso tempo, oscurandone la complessità e le sfumature di significato che andrebbero, invece, evidenziate.
Ciò non è affatto strano, se teniamo conto non solo dei recenti casi di cronaca, ma soprattutto della storia delle relazioni tra Europa e Islam.
Eppure, se davvero vogliamo capire cosa sta accadendo oggi nel mondo, avere un’idea il più possibile chiara degli eventi, non possiamo fermarci qui. Dobbiamo leggere, chiedere spiegazioni, fare domande, andare sempre oltre senza pensare di saperne abbastanza. In una parola: informarci. (E questo non vale solo a proposito del ǧihād ).
In questo articolo cerchiamo di capire cos’è e come si è sviluppato il concetto di ǧihād seppur nei limiti di spazio concessi da un blog e, anche per questo, tenendo conto quanto di scritto sopra, ovvero… ci sarà sempre un angolo in cui non abbiamo ancora cercato, ci sarà sempre un libro che non abbiamo ancora letto e che “occhieggia” verso di noi dalla libreria. Ci sarà sempre qualcosa che ci sfugge e una porta che non abbiamo ancora aperto.
Perché indugiare, dunque?
Il significato
Il termine ǧihād, in arabo جهاد , si forma dalla radice ǧ-h-d, attraverso la quale si intende lo sforzo compiuto “sulla via di Dio” (in arabo fī sabīli llāhi; الله سبيل في). 
Solo per gli Sciiti è il sesto pilastro dell’Islam, insieme alla professione di fede (shahāda), la preghiera (ṣalāt), l’elemosina (zakāt), il digiuno durante il Ramaḍān (ṣawm) e il pellegrinaggio a La Mecca (ḥaǧǧ) (i cinque pilastri, come sappiamo, riconosciuti sia dai Sunniti che dagli Sciiti).
Fin qui il significato letterale. Veniamo all’interpretazione: con ǧihād, infatti, i musulmani si riferiscono sia a una battaglia vera e propria che a una lotta interiore.
L’interpretazione
Esistono due tipi di ǧihād: il grande ǧihād e il piccolo ǧihād.
Il primo è uno sforzo interiore, ovvero la lotta con se stessi per vincere le passioni terrene e diventare uomini migliori. Per dirla in termini molto moderni si tratta di uno sforzo per la “crescita personale” (al- ǧihād al-akbār, cioè “lo sforzo maggiore”). Questo è il significato originario di ǧihād. 
Il secondo, invece, è uno sforzo esteriore, in quanto fa riferimento alla guerra che, però, può avvenire solo in casi particolari (al- ǧihād al-aṣghār, cioè “lo sforzo minore”). 
Queste sono le due interpretazioni più importanti e diffuse dall’VIII secolo circa grazie alle dottrine sufi.
Soffermiamoci un momento sul piccolo ǧihād. Abbiamo visto il chiaro riferimento alla guerra,
ma dobbiamo tenere presente le diverse esegesi, molte delle quali ritengono che nel Corano non si parli di guerra offensiva, ma di difesa della comunità islamica.
Bausani, nel suo saggio “L’Islam” (Garzanti, 2002) chiarisce che l’obbligo di difendere la comunità islamica è affidato a tutti i credenti che possano usare un’arma, ma solo in caso di aggressione. Comunque non tutti gli studiosi concordano con la definizione di “guerra difensiva”.
Su quest’ultima teoria, come vedremo, esistono delle ulteriori sfumature di significato.
Dunque, in generale, ci troviamo di fronte a due diverse concezioni di ǧihād: una riguarda l’impegno, la fatica per avvicinarsi ad Allah, l’altra è una lotta nell’accezione più comune, su un campo di battaglia.
Nel Corano esistono riferimenti a entrambe le interpretazioni, ma per chiarire meglio il concetto di ǧihād è necessario analizzare il contesto storico in cui questo si formò.
Guerra santa?
Una cosa è certa: ǧihād non è traducibile con “guerra santa”. Sono due concetti diversi figli di contesti e idee altrettanto differenti. Non solo: come ci spiega Gabriele Mandel nel saggio “Islam” (Electa, 2006) al-ḥarb al-muqaddasa, ovvero “guerra santa” (الحرب المقدسة) non compare mai nel Corano; l’espressione venne usata, per la prima volta, in una predica di Pietro l’Eremita nel 1096, cioè all’inizio della prima Crociata.
Per i primi musulmani e per lo stesso Maometto fare la guerra significava scontrarsi con quanti erano ostili all’Islam e, soprattutto, con i politeisti che abitavano La Mecca. Questo è il contesto puramente storico in cui nacque la religione islamica e si rafforzò il “suo istinto di sopravvivenza”.
Guerra, dunque, era sinonimo di conquista, di sottomissione e di potere politico. Ovviamente guidare una comunità voleva dire anche sviluppare una fondamentale inclinazione per la diplomazia, che consentì ai musulmani di promuovere la pace attraverso patti stipulati con ebrei e cristiani, ma anche con gli stessi meccani (ricordiamoci sempre di essere su una specie di “campo minato” in cui i termini possono risultare troppo stretti per accogliere sfumature di significato o, ancora più in grande, strategie politiche per cui conquiste e diplomazia non sono necessariamente antitetici; certo bisogna tenere conto del fatto che gli accordi, spesso, sono a vantaggio della parte più forte o vittoriosa e possono essere rotti, trasgrediti, dunque generare nuove battaglie in cui la pace e il patto vengono rinegoziati).
Frutto dell’arte diplomatica fu anche la dhimma, ovvero il particolare status concesso, tramite un accordo di protezione, dai musulmani alla “Gente del Libro” nei territori conquistati (ebrei e cristiani in un primo momento, ma tale status venne, in seguito, accordato anche ai fedeli di altre confessioni).
Rammentiamo, comunque, che stiamo parlando di accordi di natura politica, che mutarono nel tempo e, nel caso della dhimma, anche in base ai luoghi in cui vennero applicati e alle strategie diplomatiche dei sovrani in carica.
C’è, poi, un altro fatto di cui dobbiamo tenere conto quando parliamo di ǧihād e contesto storico: in quale momento avvennero le rivelazioni contenenti questo termine. Dove si trovava il Profeta, a La Mecca o a Medina?
Nelle sure meccane, secondo quanto spiegato da molti studiosi musulmani e non, il ǧihād rappresenta unicamente lo sforzo interiore. In quelle medinesi, invece, è più evidente il significato di lotta militare contro La Mecca associata a tale termine.
E’ chiaro, quindi, che il concetto di ǧihād ha bisogno, per essere spiegato, del riferimento al contesto storico in cui è nato. Detto questo la definizione di “lotta difensiva” può essere e, di fatto, viene messa in discussione; combattere contro quelli che sono considerati infedeli, infatti, può giustificare l’attacco, presentato come una battaglia per “difendere” la sopravvivenza dell’Islam. Il Corano annovera tali lotte tra i dovere di ogni musulmano.
La Casa dell’Islam
Le prime conquiste islamiche avevano uno scopo ben preciso: l’espansione, che non presupponeva la conversione. I primi musulmani, infatti, tenevano al carattere “arabo” della loro religione e la dhimma era più che sufficiente per regolare i rapporti di convivenza tra loro e i fedeli delle altre religioni.
Questo stato di cose, dato il livello espansionistico raggiunto e l’incontro con altri popoli e differenti usi, non durò a lungo. Lo sviluppo del diritto musulmano e della società islamica portò a scindere, in maniera netta e inequivocabile, il mondo allora conosciuto in due grandi “blocchi”: dar al-Islām e dar al-ḥarb, ovvero la “Casa dell’Islam” e la “Casa della Guerra”, la terra dei musulmani e la terra abitata dagli infedeli.
Questa separazione non marcava solo dei confini fisici e religiosi ma, in qualche modo, rendeva la parte di mondo non islamizzata una sorta di terra da conquistare e assoggettare, in cui compiere razzie e, nello stesso tempo, portare l’Islam.
Si usava pianificare almeno un ǧihād ogni anno e, in caso di concretizzazione e vittoria, i popoli conquistati avevano due possibilità: convertirsi, oppure essere fatti schiavi. Come ci ricorda il teologo Hans Kung nel suo saggio “Islam” (Rizzoli, 2005), il concetto di ǧihād subì un progressivo declino durante la colonizzazione, per poi risorgere nel Novecento, radicalizzandosi a causa di nuove e più estreme interpretazioni coraniche.
Questa radicalizzazione ha consentito la nascita e l’inarrestabile ascesa di gruppi terroristici come al-Qa’ida, divenuto tristemente famoso dopo l’attacco alle Torri Gemelle dell’11 settembre 2001 o lo stesso Isis che miete vittime e orrore ogni giorno.

A questo punto ci chiediamo se sia possibile sconfiggere il terrorismo e in che modo.
E’ solo un’utopia pensare che possa esistere un dialogo tra cristiani e musulmani moderati e che possiamo lottare insieme affinché né l’odio né la prevaricazione abbiano la meglio?
Conclusione
Dialogare è possibile, costruire la pace è necessario, ma bisogna tenere in considerazione alcuni elementi, presentati in maniera esauriente, magistrale da Hans Kung e che condivido: per estirpare alla radice la piaga del terrorismo occorre investire più risorse nell’istruzione, nelle società e questo vale tanto per il mondo islamico quanto per quello occidentale.
Del resto il terrorismo prospera dove ci sono guerre, ignoranza, povertà, violenza, situazioni estremamente disagiate, che non favoriscono il pieno sviluppo del diritto alla libertà in ogni sua declinazione.
L’educazione, poi, si fonde con le altrettanto necessarie interpretazioni del Corano, le quali devono tenere conto del contesto storico in cui il messaggio divino è stato rivelato. C’è bisogno assoluto di riflessione e di critica, del dinamismo intellettuale che l’Islam, storicamente, conosce bene ed è l’esatto opposto della rigida, dogmatica accettazione perpetrata dagli estremisti. Lo sforzo interiore e anche quello esteriore, dal momento che, come abbiamo già detto, esso va contestualizzato nel periodo storico di riferimento, non devono essere un punto di partenza, una legittimazione o una giustificazione per chi vuole diventare un “martire”, un kamikaze, un assassino, per chi cova odio e vuole solo spargimento di sangue o manipolare gli altri per secondi fini. 

Al contrario; questo sforzo interiore è miglioramento di sé che nulla ha a che vedere con la distruzione e l'autodistruzione.
Da un punto di vista strettamente religioso, poi, il teologo evidenzia che secondo la fede islamica (e non solo, per chi crede) unicamente Dio può decidere della vita e della morte.
Il terrorismo fa paura, ma non possiamo e non dobbiamo lasciarci vincere. E' il momento, per musulmani e non, di svegliarsi.
Bibliografia
Bausani Alessandro, L’Islam, Garzanti, Milano 2002.
Mandel Gabriele, Islam, Mondadori Electa, Milano 2006.
Kung Hans, Islam, Rizzoli, Milano 2005.
Cook David, Storia del jihad. Da Maometto ai giorni nostri, Einaudi, Torino 2007.
Scarcia Amoretti Biancamaria, Tolleranza e guerra santa nell’Islam, Sansoni Scuola aperta, Firenze 1974.


Fonte immagini: Ansa e Wikipedia (La presa di Gerusalemme durante la prima Crociata; l'Arcangelo Gabriele rivela il messaggio divino a Maometto)

sabato 14 settembre 2013

Vita nell’harem

“E se temete di essere ingiusti nei confronti degli orfani, sposate allora due o tre o quattro tra le donne che vi piacciono; ma se temete di essere ingiusti, allora sia una sola o le ancelle che le vostre destre possiedono, ciò è più atto ad evitare di essere ingiusti”. 
(Corano 4:3)

"Une piscine dans le harem" di J.L. Gerome (1876)
Harem è una parola che evoca una dimensione quasi da favola nell’immaginario collettivo occidentale. Un suono che sa di esotico, associato a dipinti famosi di donne seminude o che danzano, a film che ne hanno accentuato l’aspetto sensuale, a romanzi che hanno tratteggiato figure femminili astute, talvolta spietate o, al contrario, vittime di quella che, in molti casi, è divenuta una vera e propria gabbia dorata

Quando si parla di harem non si può fare a meno di trattare anche la questione della poligamia nel mondo islamico, che verrà analizzata in articoli successivi di cui questo rappresenta l’introduzione. Il significato della parola è noto; l’harem, (radice Ḥ-R-M, che indica il concetto di proibito in arabo) è un luogo inviolabile, destinato alle donne della famiglia. 

Ciò vuol dire che in questo spazio riservato non vivono solo le mogli del signore, (sultano, principe, vizir, o facoltoso mercante che sia), ma anche le sue figlie, le sue sorelle, la madre e così via. L’accesso a questo mondo femminile e chiuso è vietato a tutti gli uomini che non siano il padrone di casa, gli eunuchi e gli anziani ritenuti non più in grado di avere relazioni sessuali. 

Nella Storia molti sovrani musulmani hanno avuto harem grandissimi, costituiti dalle mogli e
"La cartomancienne au harem" M.A Chataud
anche da decine di concubine. A tal proposito l’Islam prevede che un uomo possa prendere fino a quattro mogli, non di più, dunque bisogna fare attenzione a non confondere lo status di consorte con quello di concubina. Moulay Ismail, per esempio, aveva oltre cinquecento concubine e più di settecento figli. 

Accadeva persino che un sovrano “ereditasse” l’harem del suo predecessore e il suo prestigio era direttamente proporzionale al numero di donne che possedeva. Un simbolo di status sociale, quindi. A proposito di poligamia, poi, una piccola precisazione: il Corano sottolinea il fatto che tutte le mogli debbano essere trattate in maniera equa non solo dal punto di vista economico, ma anche da quello sentimentale. 

Su quest’ultimo punto il lettore potrà facilmente portare prove che ribaltino del tutto quasi la teoria, ma non dobbiamo dimenticare che esiste, in questo come in molti altri casi, un divario tra la religione e la legge da una parte e la consuetudine, come anche il carattere degli uomini, dall’altra.

"Le harem du palais" di Boulanger
Non sempre, cioè, la pratica rispetta la teoria e, purtroppo, si verificano anche contraddizioni, problemi gravi, o azioni ingiustificabili a cui bisogna trovare una soluzione il prima possibile. Si tornerà su questo argomento parlando dell’harem in epoca moderna, ma per ora l’importante è non sovrapporre la figura della moglie con quella della concubina, errore commesso da molti.

Fin qui i particolari più noti riguardo all’harem e alcune precisazioni sulla terminologia che rischiava di generare confusione. 

Ma … qual è l’origine dell’harem

Può sembrare strano ma alcuni tendono a dimenticare che la poliginia non esiste solo nel mondo islamico. Già i faraoni d’Egitto possedevano harem immensi e come dimenticare gli imperatori cinesi, i re africani o aztechi e le potenti dinastie indiane? La possibilità di avere più mogli e concubine non è nata con l’Islam, ma esisteva già prima. 

"Roxelane und der Sultan" di Hickel, 1780
Questa nuova religione l’ha “interiorizzata”, islamizzata conferendole “una nuova veste”, reinterpretandola ove necessario, ma non l’ha creata. Il profeta Muhammad, per esempio, sposò anche delle vedove che, senza il sostegno di un uomo, considerato fondamentale nel mondo islamico, sarebbero state relegate ai margini della società, lasciate senza protezione e, dunque, esposte a pericoli. 

Un tema molto vasto quello dell’harem, impossibile da affrontare in un solo articolo e su cui si continua a scrivere ancora oggi, tanto è potente il fascino che esercita sulla curiosità occidentale. Non esiste un solo tipo di harem nella storia del mondo e neppure in quella dell’Islam. 

Si tratta di un percorso storico, religioso e sociale che vanta numerose ramificazioni, protagonisti e protagoniste che talvolta sembrano uscite fuori dalla penna di uno scrittore, intrighi politici, sofferenza, lusso, sensualità, amore e morte. 

L’harem è un piccolo mondo con regole e codici ben definiti che rispecchia quello, più vasto, in cui la maggior parte degli esseri umani vive quotidianamente. 

Come erano fatti gli harem? Quali sono le differenze tra quelli appartenenti ai signori musulmani e quelli di altri popoli? Come venivano scelte le donne che vi potevano accedere e quale influenza avevano? Chi erano gli eunuchi e le concubine? Quale impatto culturale, artistico e sociale ha avuto l’harem e la figura dell’odalisca nell’immaginario occidentale e perché? Come si è evoluto nell’epoca moderna e cosa c’entra la danza del ventre

Nei prossimi post …

lunedì 17 giugno 2013

Sahara (1983)

L’articolo di oggi è dedicato ad un film che la televisione non trasmette più da anni e che, forse, non ricordano in tanti. Eppure quando uscì, nel 1983, ebbe un buon successo di pubblico e, nonostante la critica non sia mai stata generosa, il film non è assolutamente da buttar via.

“Sahara” (1983) è un film diretto dal regista britannico Andrew V. McLaglen e ambientato nel 1928. Dale è la figlia di un costruttore d’auto che, per salvare l’azienda di famiglia, decide di travestirsi da uomo pur di partecipare ad una gara automobilistica nel Sahara. 

Tra i suoi rivali c’è Von Glessing, un tedesco che, usando la gara come copertura, vende armi alle fazioni tribali in lotta tra loro. Durante la corsa Dale viene rapita da un gruppo di beduini ritrovandosi proprio al centro di queste lotte intestine, ma anche di una inaspettata e travolgente storia d’amore con Jaffar, il capo di una delle tribù contendenti.

Il film mescola avventura, amore, scenari esotici da Mille e Una Notte, odio, guerra, invidia e rivalità fra clan. Nella parte dei protagonisti troviamo Brooke Shields, a cui venne assegnato il sarcastico “Razzie Award” per la sua interpretazione e Lambert Wilson, che ha lavorato in diverse produzioni americani, tra cui Matrix Reloaded e Matrix Revolutions. Di storie d’amore tra belle avventuriere e sceicchi del deserto ce ne sono tante e tutte, più o meno, seguono uno stesso leitmotiv. 

In questo film, però, queste vicende amorose tra i due protagonisti si intrecciano con dei temi
molto importanti ed attuali, come il traffico d’armi e le battaglie fra tribù rivali. La pecca, in effetti, sta proprio qui: due argomenti così importanti e complessi potevano essere affrontati in altro modo senza togliere nulla al fascino del film, dei protagonisti e della storia d’amore.

La sceneggiatura ha un buon livello ed anche l’ambientazione è ricostruita molto bene. Purtroppo, però, il film risente dell’immagine che l’Occidente ha elaborato per pensare l’Oriente, cioè di una sfumatura fiabesca eccessiva, un esotismo talvolta forzato e tutto questo è evidente man mano che la storia procede.  

Sahara, dunque, diventa un prodotto ad uso e consumo degli occidentali che vogliono guardare un film sul mondo arabo-islamico, ma senza impegnarsi troppo. 

Una sorta di svago che non deve concedere troppo alla riflessione. Un peccato, poiché gli spunti sono molteplici e notevoli, ma usati piuttosto male. Il livello della recitazione non è poi tanto malvagio e l’idea di partenza, una donna che si traveste da uomo per partecipare ad un rally alla fine degli anni Venti, è ottima e poteva essere sviluppata mettendo in risalto la personalità decisa della protagonista che cede di fronte all’amore, ma comunque non dimentica il dovere di portare a termine gli obiettivi intrapresi. 

Ciò, invece, viene mostrato solo a tratti (per esempio quando Dale abbandona l’accampamento per riprendere la gara, pur essendo già innamorata di Jaffar), ma manca un vero approfondimento psicologico, una caratterizzazione più profonda e sfumata, al contempo, dei protagonisti. Sahara è una buona occasione sprecata ma la visione di questo film non è certo da sconsigliare. 

Un’ora e mezza di intrattenimento che fa sognare (e di questi tempi ce n’è bisogno), che fa muovere la mente verso luoghi ed atmosfere diverse e non sempre accessibili. 

Perché non riproporre il film in televisione (ad un orario decente) e, magari realizzare una versione italiana del DVD?



venerdì 17 maggio 2013

"50 Sfumature di Sci-Fi"

Avevo annunciato che questo sarebbe stato un periodo di novità e, infatti, ve ne posto subito un'altra. Il 28 maggio uscirà, sia in versione digitale che cartacea, l'antologia di fantascienza "50 Sfumature di Sci-Fi"

Ho l'onore di farne parte, con un racconto ambientato nel mondo arabo, "La Preghiera della Sera" ma, soprattutto, di essere accanto ad autori famosi e di grande esperienza. 

L'antologia, a cura della vulcanica Alexia Bianchini per la sua casa editrice, "La Mela Avvelenata", racchiude i racconti di 50 autori da lei selezionati, che hanno potuto scegliere tra vari sottogeneri, dallo steampunk, all'ucronia. 


"La Preghiera della Sera" 

In un mondo futuro governato dall'Islam, i due gruppi predominanti, i Sahib ed i Salam, si fronteggiano per ottenere il potere assoluto. I primi ritengono che solo tornando nel passato ed alterando gli avvenimenti considerati non in linea con il pensiero islamico si potrà creare un mondo perfetto. I secondi, invece, reputano sacrilego alterare ciò che Allah ha disposto. Lo scontro decisivo avviene quando i Sahib progettano di uccidere il genero del Profeta Maometto, Ali. Al gruppo dei Salam il compito di salvare l'uomo e, con lui, una parte fondamentale della storia islamica e mondiale. 

venerdì 26 aprile 2013

Anteprima. La ragazza di Teheran di Maurice Bigio

“Shirine ha tanti nemici ma solo un’arma: la sua libertà” 

La protagonista di questo nuovo libro sul regime iraniano è una donna che non ha altra scelta se non quella di combattere.

La sua è una battaglia pubblica e privata nello stesso tempo contro due temibili oppressori: il primo, “esterno” e ben riconoscibile, è rappresentato dal potere politico. L’altro, più subdolo è nascosto dietro la figura del marito di Shirine, in apparenza uomo colto ed impeccabile, ma in realtà rigido tradizionalista incapace di vedere oltre il velo oscuro del fanatismo religioso.

A Shirine, dunque spetta la lotta contro la società intera ed i lati oscuri di una vita che sembra tranquilla, ma è segnata da dolori ed imposizioni. 

La storia di questa donna è il ritratto dell’Iran moderno in tutte le sue sfumature e contraddizioni, ma anche lo specchio della vita difficile, benché piena di speranza, che molte persone, uomini e donne, sono costretti a vivere ogni giorno. 


Il Libro

Titolo: La Ragazza di Teheran 

Autore: Maurice Bigio 

Casa editrice: Newton Compton 

Pagine: 283 

Prezzo: 9.90 euro (disponibile anche in ebook a 4.99)

Data di pubblicazione: 18 aprile 2013 






  Trama

Può un silenzio essere più assordante di mille parole? 

Shirine è un avvocato che si batte per difendere le vittime oppresse dal regime totalitario dell'Iran. La sua, però, non è solo una battaglia pubblica e legale. Shirine ne combatte un’altra, privata e quotidiana all’interno delle mura domestiche. Suo marito Shapour, importante fisico atomico che si occupa degli studi sul nucleare in campo bellico, nonostante abbia studiato negli Stati Uniti, si rivela ben presto un tradizionalista, un fanatico religioso che si oppone fermamente all’impegno sociale della moglie. Cerca, perciò, con tutti i modi a sua disposizione, di ridurla al silenzio, al ruolo esclusivo di madre cieca e sorda che si occupi del loro figlio malato, Shantia, un bambino brillante, condannato però a una vita breve e alla paralisi progressiva. Shirine sa però che deve continuare a lottare, per sé, per il suo Paese e per offrire a suo figlio un assaggio di vita in cui le parole Libertà e Giustizia abbiano ancora un valore. Nell'Iran dei diritti umani calpestati, una donna coraggiosa è disposta a rischiare quel che ha di più caro per difendere la causa degli oppressi. 


La critica

“La ragazza di Teheran è un bell’affresco, contraddittorio ma realistico, dell’Iran attuale e, soprattutto, del destino di una donna eccezionale. Favoloso”. 
Page des Libraires 


Per saperne di più 

La pagina del sito Newton Compton dedicata al libro, in cui è possibile scaricarne un estratto.


L’autore 

Maurice Bigio è nato a Il Cairo, è un medico radiologo che vive e lavora in Francia, osservatore particolarmente attento della realtà mediorientale. La ragazza di Teheran è il suo primo romanzo.