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martedì 7 maggio 2019

Il Pakistan vieta i matrimoni prima dei 18 anni

Foto: Getty Images

Il Pakistan approva in Senato una legge che vieta i matrimoni prima dei 18 anni. Si tratta di una svolta importante per impedire il dramma, purtroppo attualissimo, delle spose bambine. 

Lo scorso 29 aprile il Senato pakistano ha approvato una legge che eleva l’età per contrarre matrimonio da 16 a 18 anni, modifica importantissima che consente una svolta sui diritti umani e, in particolare, su quelli dei minori nel Paese. La riforma si propone di ridurre “il rischio di matrimonio infantile prevalente nel Paese” e salvaguardare “la donna dallo sfruttamento”. 

mercoledì 18 aprile 2018

L’Islam e l’ascesa della “moda modesta”

La moda è in continua evoluzione come il cammino dell’uomo e la Storia. Chi la considera una faccenda di poco conto, per ragazzine ossessionate dal look, oppure la riduce a un insieme di tendenze stagionali collegate alla smania di consumismo commette un grave errore.

La moda è molto di più di un post su Instagram; è specchio del tempo, riflette abitudini, regole, forme di ribellione, desideri, sogni, immagini, pensieri, fantasia, razionalità, ma coinvolge anche la società, il commercio, il lavoro di tantissime persone ed è costituita da tante tappe quante sono le epoche vissute dall’uomo (a tal proposito vi consiglio di riguardare il celebre dialogo tra Meryl Streep e Anne Hathaway nel film “Il Diavolo veste Prada).

Oggi stiamo assistendo a un nuovo cambiamento, osservando un riflesso diverso da quello che siamo abituati a vedere di solito: la “moda modesta” al femminile. In generale possiamo definire così un preciso codice di abbigliamento (e, quindi, solo per alcuni versi, di comportamento, ovvero un determinato modo di porsi, di stare in società) che viene declinato in diverse sfumature non solo nel mondo islamico, ma anche in quello occidentale, ovviamente con differenze rilevanti.

In questo articolo ci interessa analizzare la moda modesta dal punto di vista islamico, ma certo quello occidentale è altrettanto importante e ha a che fare con la volontà di andare controcorrente, preferendo abiti meno appariscenti, in una società in cui la vita quotidiana, i gusti, i viaggi, il corpo, i successi sono sovraesposti, spesso esibiti con un autocompiacimento malcelato.

Sulla moda modesta in senso occidentale potremmo scrivere pagine su pagine, ma perderemmo di vista la natura di questo blog. Torniamo, quindi, alla moda modesta secondo l’Islam.

Questa definizione risale al Duemila, con la nascita delle prime case di moda dedicate all’islamic fashion, come spiega la professoressa Reina Lewis nel suo saggio “Modest fashion: styling bodies, mediating faith”, (Tauris Academic Studies, 2013).

Devo ammettere che i termini “moda modesta” non mi convincono del tutto: le parole, spesso, vengono caricate di significati, di simboli che vanno oltre una semplice definizione. “Modesta” è un aggettivo impiegato, in questo caso, per contrapporre il costume islamico a quello occidentale; così facendo, però, dimentichiamo il fatto che non tutta la moda europea e americana può essere definita come “non modesta”.

Che cosa intendiamo davvero con “modesto”? Attenzione a non confondere quest’ultima parola con un’altra ben diversa, ovvero “castigato”. Non sempre i due termini sono sinonimi e certo non è detto lo siano né nella moda occidentale né in quella islamica.

La moda modesta nel mondo arabo e musulmano si sta sviluppando in modi molto interessanti ed eclettici, come vedremo. A questo punto si può obiettare che, per esempio, portare il velo può essere una forma di abbigliamento castigato (e non solo modesto), mentre portare una minigonna non lo è.

Dipende da ciò che intendiamo con la parola “bellezza”, ma anche di quali e quanti significati carichiamo simboli come il velo e la minigonna. Pensiamo a quante donne musulmane percepiscono la tradizione di velarsi come un modo per affermare l’identità e non una forma di castigo per il corpo.

Di contro, però, ed è giusto ricordarlo, per altre donne il velo è una costrizione imposta dall’esterno, un obbligo attraverso il quale “misurare” la genuinità della fede (anche per gli uomini esistono obblighi simili).

Aab Collection: https://www.aabcollection.com/
Ciò non fa che rendere la complessità dei concetti di moda, femminilità, bellezza, libertà nel mondo islamico e, quindi, l’impossibilità di ridurli a una visione o a termini troppo generici. Persino una minigonna può diventare una sorta di trappola se viene imposta come un abbigliamento da indossare “a tutti i costi” e a rigide condizioni senza le quali “non possiamo dirci belle”.

Qui non è la fede, ma la bellezza a essere “misurata”. (Fatima Mernissi, nel libro “L’Harem e l’Occidente”, asserisce che, per le donne occidentali, la taglia 42 rappresenta, al pari del velo per le donne musulmane, la vera oppressione, una sorta di harem, ovvero una gabbia da cui è molto difficile uscire). 

Si tratta, ovviamente, di forme diverse di costrizione, ma il risultato è lo stesso: incastrare persone e concetti in stereotipi, omologarle in ambito religioso, sociale, persino privato.

La percezione soggettiva degli obblighi, ma anche di noi stessi e i condizionamenti provenienti dall’esterno non hanno sempre dei confini ben delimitati e questo complica ulteriormente le cose.

I termini “moda modesta” fanno pensare a una mancanza di fantasia nella scelta dei tessuti, dei colori, nella creazione dei modelli, o ancora a qualcosa di lungo, senza forma, grigio e spento in contrapposizione a un tipo di moda più colorata, “scollata” e vivace, ma basta guardare l’ultima sfilata di abiti svoltasi a Dubai il mese scorso, nell’ambito dell’evento “A Modest Revolution” per renderci conto che la “modest fashion” è tutt’altro.

Per questi motivi trovo riduttivi i termini con cui ci si riferisce a questo tipo di moda. Non dobbiamo neanche pensare che si tratti di un settore di nicchia. I numeri, del resto, parlano chiaro: Reuters, insieme a Dinar Standard, riportano una spesa di circa 243 miliardi di dollari, nel 2015, per quel che concerne i capi d’abbigliamento e gli accessori della moda modesta nei Paesi islamici.

Ci si aspetta, per quest’anno, una notevole crescita di questo settore e di quelli relativi ai viaggi, alla cultura e al cibo. I Paesi che producono di più si trovano in Medio Oriente e in Asia. Parliamo di nazioni in ascesa economica, in cui si investe e si crea (tendenze, queste, in pieno sviluppo già da anni).

Gli stilisti non sono solo arabi musulmani; persino Dolce & Gabbana hanno realizzato, per la primavera/estate 2016 una linea chiamata “Abaya” pensata per le donne musulmane. Hijab, abaya, occhiali da sole coordinati, tessuti freschi e leggeri su cui dominano i ricami, le pietre, le stampe floreali e, soprattutto, i colori.

La prima modest fashion week si è tenuta nel 2014 a Istanbul e, da allora, lo stile islamico ha conquistato le passerelle di tutto il mondo, fino ad approdare, nel febbraio 2017, a Londra, la prima città europea ad aver ospitato l’evento. 

Impossibile, poi, non ricordare il Modest Fashion Festival tenutosi il 21 ottobre nella capitale inglese, a Grovesnor House. Questo appuntamento, fulcro della moda modesta di lusso, è nato dall’idea di Fahreen Mir e Sultana Tafadar con lo scopo di far conoscere lo stile islamico, abbattere i pregiudizi che lo circondano, far scoprire un nuovo modo di creare e pensare la moda.

Fahreen Mir è un’ematologa che lavora a Sutton, al Royal Marden Hospital, mentre Sultana Tafadar è un avvocato specializzato in diritto internazionale e dedica la vita al rispetto dei diritti umani.

Durante questo festival ha sfilato anche Halima Aden, la giovane modella musulmana di origini somale, nata in un campo profughi in Kenya e naturalizzata americana. Halima ha sfilato con l’hijab per Alberta Ferretti e Max Mara durante la Milano Fashion Week lo scorso anno e per la collezione di Yeezy Season 5 di Kanye West a New York (A.I 2017/2018).

La sua ascesa nel mondo della moda include una cover storica su Vogue Arabia (giugno 2017), in cui posa indossando il velo (fatto mai accaduto su una rivista occidentale), seguita da un’altra su Allure (luglio 2017).

Halima Aden è diventata un simbolo dello stile e della moda modesti, benché di lusso, un’icona che, prima di sfilare per Ferretti ha detto: “Voglio trasmettere un messaggio positivo che ha come tema la bellezza e la diversità. Voglio mostrare alle giovani donne musulmane che c’è spazio anche per loro”.

La moda modesta, dunque, non deve essere immaginata come una specie di “monolite” immutabile nel tempo. Esistono tanti stili quanti sono i Paesi islamici e ogni stile può essere personalizzato dalla donna che lo indossa. Inoltre ogni stilista crea abiti in base a precise idee che riguardano i concetti di femminilità, modernità, bellezza, lusso, stile appunto e che sono quasi totalmente soggettive e mai fisse nel tempo.

Lo scopo di molti creativi di questo settore è quello di rompere gli schemi e gli stereotipi (in teoria lo stesso discorso vale per la moda occidentale).

La modest fashion è in continua espansione e non conosce crisi. Si sta, pian piano, staccando (benché non del tutto) dai dettami religiosi per andare incontro alle esigenze e ai desideri delle ragazze e delle donne nel mondo moderno.

Una sfida che si sta giocando anche in Europa e negli Stati Uniti. Solo il tempo potrà mostrarci in che modo evolverà.


Bibliografia e sitografia

Lewis Reina, “Modest Fashion: Styling Bodies, Mediating Faith”, Tauris Academic Studies, 2013;

Mernissi Fatima, “L’harem e l’Occidente”, Giunti Editore, 2000;




mercoledì 26 febbraio 2014

“L’Arte di Dimenticare” di Ahlam Mosteghanemi

“Non un manifesto femminista, ma un rendiconto a firma femminile contro il machismo e in difesa dell’uomo, quell’essere che seduce e di fronte al cui fascino siamo orgogliose di cedere. Perché senza di lui non saremmo né femmine né donne”. 
Tratto dal libro “L’Arte di Dimenticare” di Ahlam Mosteghanemi 

Oggi vorrei proporvi un libro molto particolare, scritto da una delle voci più importanti e potenti del mondo arabo: l’algerina Ahlam Mosteghanemi. L’autrice non ha bisogno di presentazioni; riconosciuta come la più famosa romanziera arabofona del mondo, vanta più di un milione di fans su Facebook ed è la prima scrittrice algerina i cui lavori sono stati tradotti in inglese.

La copertina dell'edizione originale araba
Nel libro “L’Arte di Dimenticare” la Mosteghanemi insegna alle donne, non solo arabe, come dimenticare un uomo che le ha fatte soffrire. Non è strano che una donna araba parli di un argomento simile, al contrario: i suoi illuminanti consigli, frutto di riflessioni ed esperienze dirette e indirette e nati nella quotidianità araba possono essere applicati dalle donne di tutto il mondo, proprio perché l’amore, come la sofferenza, non ha nazionalità, né religione.

Il sottotitolo del volume indica fin da subito la traccia seguita dall’autrice per sviluppare l’argomento: “Amalo come sai fare tu, dimenticalo come farebbe lui”. Poche parole da cui affiora il piglio deciso, diretto, senza fronzoli con cui la Mosteghanemi cerca di spronare le lettrici a riprendere in mano la vita che, in nome del sentimento più sconvolgente e profondo che esista, hanno regalato all’uomo sbagliato. 

Attraverso la suddivisione precisa in capitoli con l’inserimento ad hoc di citazioni e poesie sue o di altri autori, o di detti popolari, l’autrice si propone di trattare in maniera rigorosa, quasi scientifica, ma nello stesso tempo leggera (non superficiale) e ironica il mal d’amore che, prima o poi, affligge tutte le donne della Terra. Le parole-chiave del saggio sono: amore, passione, attesa, oblio, cambiamento. L’ordine non è casuale. 

Tutto, infatti, inizia con il turbamento, le famose “farfalle nello stomaco”, quella sorta di sobbalzo che scatena nelle donne, come negli uomini, la prima fase di innamoramento acuto. Amore e passione si fondono, creando il sogno e l’idillio, scrivendo a caratteri d’oro nelle vite di ciascuno le parole fatidiche, “per sempre”

O, almeno, finché qualcosa non va storto. Le cose, si sa, possono cambiare; litigi, tradimenti, silenzi prolungati da parte dell’uomo possono gettare la donna nella più cupa angoscia e nello sconforto più profondo. Qui inizia la fase più delicata per la coppia che oscilla tra l’amore e la separazione. 

La donna, infatti, attende, spera e si dispera, non vuole saperne di dimenticare, quasi i ricordi di quell’amore siano tutto ciò che le rimane, l’unico appiglio per sopravvivere. Non a caso la copertina dell’edizione italiana del libro reca l’immagine di un pesce e, sopra, la scritta: “La memoria di un pesce oscilla tra i cinque e gli otto secondi. La fedeltà delle donne verso il passato è patologica”. 

Secondo Ahlam Mosteghanemi gli uomini sanno dimenticare prima e meglio, riescono a lasciarsi alle spalle il passato, a recidere i legami con ciò che non vogliono. Le donne, invece, cercano la fiaba, il sogno, il principe azzurro perfetto, romantico e condottiero, fiero ma tenero, determinato ma generoso, risoluto nelle cose della vita eppure tenero e fragile nelle cose dell’amore. Insomma, forse le donne cercano qualcosa che non esiste nella realtà, un ideale che fa prendere loro cantonate pazzesche da cui si risollevano dopo mesi, se non anni. 

La realtà, invece, è fatta di uomini che spariscono, talvolta pavidi o, semplicemente, non più innamorati come il primo giorno. Alcuni si comportano con serietà, ammettendo debolezze ed errori, altri no. Questi ultimi, di cui parla la Mosteghanemi nel suo libro, preferiscono tenere la loro ex compagna “in sospeso”, in una sorta di limbo, di “harem psicologico” di cui sono ancora i padroni. O meglio, credono di esserlo. 

Molte donne non sanno, o fanno finta di non sapere, che la chiave per liberarsi dalla prigione dei ricordi, dell’attesa e dei sospiri della tristezza è proprio nelle loro mani. E’ la chiave dell’oblio. Chiedersi perché le donne, talvolta, facciano finta o non si rendano conto di potersi salvare da sole da situazioni simili, o spiegare per quale motivo uomini e donne utilizzino determinati schemi comportamentali sono argomenti di studio molto complessi e su cui esiste una vasta letteratura. 

La Mosteghanemi spiega la sua interpretazione dei fatti attraverso l’osservazione diretta del mondo e delle persone, ricavando una verità difficile ma necessaria per scatenare il cambiamento e l’oblio: le donne hanno un senso della fedeltà e dell’attaccamento così profondo da risultare vincolante e perfino asfissiante in certi casi. 

L’unico modo per rompere le catene è dimenticare. Non è facile, l’autrice lo chiarisce subito e, descrivendo situazioni e stati d’animo, aiuta le lettrici accompagnandole, anzi, guidandole passo passo verso l’uscita dalla loro prigione.

Si tratta di una rivoluzione esistenziale che prevede di cancellare dalla mente e dal cuore, con buon senso e intelligenza, l’immagine dell’uomo che ha procurato sofferenza. Sembra strano dover usare la riflessione con l’amore, che poco ha a che fare con la logica. Eppure è proprio ragionando, pensando a se stesse e per se stesse che le donne possono sperare di recuperare l’indipendenza perduta.

Tutti i consigli dell’autrice sono validi, ma bisogna prendere consapevolezza del dolore, dello smarrimento e del tempo che vola via, inesorabile, in vana attesa di colui che non tornerà, per prendere lo slancio verso il futuro e una nuova vita fatta di serenità accanto all’uomo giusto.

Sembra strano che un’autrice araba affronti con tale spigliatezza un argomento così spinoso? In realtà non c’è nulla di anomalo; non solo, infatti, le donne arabe amano e soffrono come le occidentali e questo si è già detto, ma l’immagine stereotipata della odalisca da harem, sottomessa al suo signore, non è e non può diventare l’unico modo di immaginare le donne arabe. 

Questo saggio ironico, elegante, illuminante, la fierezza, la cultura e l’indipendenza di Ahlam Mosteghanemi, la sua conoscenza della vita, dei sentimenti e del cuore di uomini e donne, rendono tutte le sue opere intense e imperdibili. 

Di più “L’Arte di Dimenticaredovrebbe essere letto anche dagli uomini (arabi e non), poiché contiene interessanti verità sul modo di amare degli esseri umani, seppur nelle sue differenze di genere. 

Verità che, alcune volte, vengono dimenticate, magari in nome di un amore sbagliato che si ritiene, invece, eterno o del timore di ammettere paure che guasterebbero un’immagine di sé perfetta solo in apparenza.

Nessun cliché nel libro di Ahlam Mosteghanemi, solo la consapevolezza di quanto amare e dimenticare siano un’arte, le due facce di una stessa medaglia, quella dell’essere vivi, umani e profondamente complicati. 


Il Libro 

Titolo: L’Arte di dimenticare 

Autore: Ahlam Mosteghanemi 

Traduzione: Camilla Albanese 

Casa Editrice: Sonzogno 

Pagine: 239 

Data di Pubblicazione: aprile 2013

Prezzo: 16,50

Titolo Originale: Nissian 

Casa editrice edizione araba: Dar al-Adab 


Sinossi 

Quando una donna viene lasciata, tanto più se di punto in bianco, le ambasce del cuore possono travolgerla e spingerla a entrare nel tortuoso tunnel delle supposizioni, delle attese spasmodiche - più o meno sensate - di un segnale, magari nella speranza che non sia proprio l'ultimo e che lui ritorni. Ma così non va. C'è una cosa che le donne dovrebbero imparare dagli uomini, e cioè l'arte di dimenticare. Nessuno ci insegna come si fa ad amare, a evitare di essere infelici, a dimenticare, a spezzare le lancette dell'orologio dell'amore. Come si fa a non tormentarci, a lottare contro la tirannia delle piccole cose, a neutralizzare il complotto dei ricordi e ignorare un telefono che resta muto. Esiste qualcuno che, mentre siamo lì a singhiozzare per un torto d'amore, ci dice che un giorno rideremo di quella stessa cosa che oggi ci fa piangere? Attraverso le confidenze di amiche e conoscenti, proverbi e una ricchissima raccolta di aforismi di personaggi famosi - poeti, scrittori, filosofi arabi e non - questo libro è una sapiente e gustosa raccolta di pillole di saggezza per prendere le distanze da una storia finita e creare i presupposti per una nuova. 


L’Autrice

Ahlam Mosteghanemi, algerina, è nata nel 1953 a Tunisi e attualmente vive a Beirut. Personaggio di spicco della letteratura e del panorama mediatico arabo è una delle autrici più lette fin dalla pubblicazione del suo best-seller “La Memoria del Corpo”, vincitore del Naguib Mahfouz Medal for Literature. 


Per saperne di più

Il sito web di Ahlam Mosteghanemi.


sabato 14 settembre 2013

Vita nell’harem

“E se temete di essere ingiusti nei confronti degli orfani, sposate allora due o tre o quattro tra le donne che vi piacciono; ma se temete di essere ingiusti, allora sia una sola o le ancelle che le vostre destre possiedono, ciò è più atto ad evitare di essere ingiusti”. 
(Corano 4:3)

"Une piscine dans le harem" di J.L. Gerome (1876)
Harem è una parola che evoca una dimensione quasi da favola nell’immaginario collettivo occidentale. Un suono che sa di esotico, associato a dipinti famosi di donne seminude o che danzano, a film che ne hanno accentuato l’aspetto sensuale, a romanzi che hanno tratteggiato figure femminili astute, talvolta spietate o, al contrario, vittime di quella che, in molti casi, è divenuta una vera e propria gabbia dorata

Quando si parla di harem non si può fare a meno di trattare anche la questione della poligamia nel mondo islamico, che verrà analizzata in articoli successivi di cui questo rappresenta l’introduzione. Il significato della parola è noto; l’harem, (radice Ḥ-R-M, che indica il concetto di proibito in arabo) è un luogo inviolabile, destinato alle donne della famiglia. 

Ciò vuol dire che in questo spazio riservato non vivono solo le mogli del signore, (sultano, principe, vizir, o facoltoso mercante che sia), ma anche le sue figlie, le sue sorelle, la madre e così via. L’accesso a questo mondo femminile e chiuso è vietato a tutti gli uomini che non siano il padrone di casa, gli eunuchi e gli anziani ritenuti non più in grado di avere relazioni sessuali. 

Nella Storia molti sovrani musulmani hanno avuto harem grandissimi, costituiti dalle mogli e
"La cartomancienne au harem" M.A Chataud
anche da decine di concubine. A tal proposito l’Islam prevede che un uomo possa prendere fino a quattro mogli, non di più, dunque bisogna fare attenzione a non confondere lo status di consorte con quello di concubina. Moulay Ismail, per esempio, aveva oltre cinquecento concubine e più di settecento figli. 

Accadeva persino che un sovrano “ereditasse” l’harem del suo predecessore e il suo prestigio era direttamente proporzionale al numero di donne che possedeva. Un simbolo di status sociale, quindi. A proposito di poligamia, poi, una piccola precisazione: il Corano sottolinea il fatto che tutte le mogli debbano essere trattate in maniera equa non solo dal punto di vista economico, ma anche da quello sentimentale. 

Su quest’ultimo punto il lettore potrà facilmente portare prove che ribaltino del tutto quasi la teoria, ma non dobbiamo dimenticare che esiste, in questo come in molti altri casi, un divario tra la religione e la legge da una parte e la consuetudine, come anche il carattere degli uomini, dall’altra.

"Le harem du palais" di Boulanger
Non sempre, cioè, la pratica rispetta la teoria e, purtroppo, si verificano anche contraddizioni, problemi gravi, o azioni ingiustificabili a cui bisogna trovare una soluzione il prima possibile. Si tornerà su questo argomento parlando dell’harem in epoca moderna, ma per ora l’importante è non sovrapporre la figura della moglie con quella della concubina, errore commesso da molti.

Fin qui i particolari più noti riguardo all’harem e alcune precisazioni sulla terminologia che rischiava di generare confusione. 

Ma … qual è l’origine dell’harem

Può sembrare strano ma alcuni tendono a dimenticare che la poliginia non esiste solo nel mondo islamico. Già i faraoni d’Egitto possedevano harem immensi e come dimenticare gli imperatori cinesi, i re africani o aztechi e le potenti dinastie indiane? La possibilità di avere più mogli e concubine non è nata con l’Islam, ma esisteva già prima. 

"Roxelane und der Sultan" di Hickel, 1780
Questa nuova religione l’ha “interiorizzata”, islamizzata conferendole “una nuova veste”, reinterpretandola ove necessario, ma non l’ha creata. Il profeta Muhammad, per esempio, sposò anche delle vedove che, senza il sostegno di un uomo, considerato fondamentale nel mondo islamico, sarebbero state relegate ai margini della società, lasciate senza protezione e, dunque, esposte a pericoli. 

Un tema molto vasto quello dell’harem, impossibile da affrontare in un solo articolo e su cui si continua a scrivere ancora oggi, tanto è potente il fascino che esercita sulla curiosità occidentale. Non esiste un solo tipo di harem nella storia del mondo e neppure in quella dell’Islam. 

Si tratta di un percorso storico, religioso e sociale che vanta numerose ramificazioni, protagonisti e protagoniste che talvolta sembrano uscite fuori dalla penna di uno scrittore, intrighi politici, sofferenza, lusso, sensualità, amore e morte. 

L’harem è un piccolo mondo con regole e codici ben definiti che rispecchia quello, più vasto, in cui la maggior parte degli esseri umani vive quotidianamente. 

Come erano fatti gli harem? Quali sono le differenze tra quelli appartenenti ai signori musulmani e quelli di altri popoli? Come venivano scelte le donne che vi potevano accedere e quale influenza avevano? Chi erano gli eunuchi e le concubine? Quale impatto culturale, artistico e sociale ha avuto l’harem e la figura dell’odalisca nell’immaginario occidentale e perché? Come si è evoluto nell’epoca moderna e cosa c’entra la danza del ventre

Nei prossimi post …

martedì 25 giugno 2013

L'Arabia Saudita in difesa delle donne

Vi segnalo il link di un articolo che ho scritto per il blog Rainbwoman sulla prima campagna contro la violenza alle donne in Arabia Saudita. Tema importantissimo di cui vi riporterò gli sviluppi futuri. 

lunedì 17 giugno 2013

Sahara (1983)

L’articolo di oggi è dedicato ad un film che la televisione non trasmette più da anni e che, forse, non ricordano in tanti. Eppure quando uscì, nel 1983, ebbe un buon successo di pubblico e, nonostante la critica non sia mai stata generosa, il film non è assolutamente da buttar via.

“Sahara” (1983) è un film diretto dal regista britannico Andrew V. McLaglen e ambientato nel 1928. Dale è la figlia di un costruttore d’auto che, per salvare l’azienda di famiglia, decide di travestirsi da uomo pur di partecipare ad una gara automobilistica nel Sahara. 

Tra i suoi rivali c’è Von Glessing, un tedesco che, usando la gara come copertura, vende armi alle fazioni tribali in lotta tra loro. Durante la corsa Dale viene rapita da un gruppo di beduini ritrovandosi proprio al centro di queste lotte intestine, ma anche di una inaspettata e travolgente storia d’amore con Jaffar, il capo di una delle tribù contendenti.

Il film mescola avventura, amore, scenari esotici da Mille e Una Notte, odio, guerra, invidia e rivalità fra clan. Nella parte dei protagonisti troviamo Brooke Shields, a cui venne assegnato il sarcastico “Razzie Award” per la sua interpretazione e Lambert Wilson, che ha lavorato in diverse produzioni americani, tra cui Matrix Reloaded e Matrix Revolutions. Di storie d’amore tra belle avventuriere e sceicchi del deserto ce ne sono tante e tutte, più o meno, seguono uno stesso leitmotiv. 

In questo film, però, queste vicende amorose tra i due protagonisti si intrecciano con dei temi
molto importanti ed attuali, come il traffico d’armi e le battaglie fra tribù rivali. La pecca, in effetti, sta proprio qui: due argomenti così importanti e complessi potevano essere affrontati in altro modo senza togliere nulla al fascino del film, dei protagonisti e della storia d’amore.

La sceneggiatura ha un buon livello ed anche l’ambientazione è ricostruita molto bene. Purtroppo, però, il film risente dell’immagine che l’Occidente ha elaborato per pensare l’Oriente, cioè di una sfumatura fiabesca eccessiva, un esotismo talvolta forzato e tutto questo è evidente man mano che la storia procede.  

Sahara, dunque, diventa un prodotto ad uso e consumo degli occidentali che vogliono guardare un film sul mondo arabo-islamico, ma senza impegnarsi troppo. 

Una sorta di svago che non deve concedere troppo alla riflessione. Un peccato, poiché gli spunti sono molteplici e notevoli, ma usati piuttosto male. Il livello della recitazione non è poi tanto malvagio e l’idea di partenza, una donna che si traveste da uomo per partecipare ad un rally alla fine degli anni Venti, è ottima e poteva essere sviluppata mettendo in risalto la personalità decisa della protagonista che cede di fronte all’amore, ma comunque non dimentica il dovere di portare a termine gli obiettivi intrapresi. 

Ciò, invece, viene mostrato solo a tratti (per esempio quando Dale abbandona l’accampamento per riprendere la gara, pur essendo già innamorata di Jaffar), ma manca un vero approfondimento psicologico, una caratterizzazione più profonda e sfumata, al contempo, dei protagonisti. Sahara è una buona occasione sprecata ma la visione di questo film non è certo da sconsigliare. 

Un’ora e mezza di intrattenimento che fa sognare (e di questi tempi ce n’è bisogno), che fa muovere la mente verso luoghi ed atmosfere diverse e non sempre accessibili. 

Perché non riproporre il film in televisione (ad un orario decente) e, magari realizzare una versione italiana del DVD?



venerdì 17 maggio 2013

Rainbwoman. Il Magazine al femminile (e non solo)

Dopo settimane di lavoro che mi hanno tenuta lontano dai blog, ho l'onore di comunicarvi una nuova iniziativa che ha appena spiccato il volo. 

Sto parlando del magazine Rainbwoman, nato da un'idea di Maila Daniela Tritto, in cui siamo felici di essere state coinvolte io, Desy Giuffrè, Cristina Zavettieri e Anna De Mango.

Questa rivista, pensata dalle donne per le donne, racchiude l'universo femminile in tutte le sue sfumature, da qui il nome, che è la crasi tra le due parole Rainbow (arcobaleno) e Woman (donna). 

Ho detto che la dimensione femminile è al centro del nostro lavoro, ma quella maschile non è affatto sottovalutata

Rainbwoman si propone, infatti, di spaziare dal cinema alla moda, dall'attualità, politica compresa, fino alle storie dei grandi personaggi, dalla musica al teatro, alle serie tv, non trascurando articoli più "leggeri". Ci sarà anche una sezione con i nostri racconti. 

Il progetto riguarda anche La Mano di Fatima, poiché io mi occuperò anche della sezione
"Oriente" in cui sono previsti articoli dedicati al mondo arabo.

Seguiteci, leggete e fateci sapere le vostre impressioni, per noi fondamentali per continuare a migliorarci. 

La rivista, disponibile gratuitamente dal 15 maggio su ISSUU. 

Il blog, con uno spazio riservato a voi lettori. 

La pagina Facebook, con le novità quotidiane.

Buona lettura :-)

venerdì 26 aprile 2013

Anteprima. La ragazza di Teheran di Maurice Bigio

“Shirine ha tanti nemici ma solo un’arma: la sua libertà” 

La protagonista di questo nuovo libro sul regime iraniano è una donna che non ha altra scelta se non quella di combattere.

La sua è una battaglia pubblica e privata nello stesso tempo contro due temibili oppressori: il primo, “esterno” e ben riconoscibile, è rappresentato dal potere politico. L’altro, più subdolo è nascosto dietro la figura del marito di Shirine, in apparenza uomo colto ed impeccabile, ma in realtà rigido tradizionalista incapace di vedere oltre il velo oscuro del fanatismo religioso.

A Shirine, dunque spetta la lotta contro la società intera ed i lati oscuri di una vita che sembra tranquilla, ma è segnata da dolori ed imposizioni. 

La storia di questa donna è il ritratto dell’Iran moderno in tutte le sue sfumature e contraddizioni, ma anche lo specchio della vita difficile, benché piena di speranza, che molte persone, uomini e donne, sono costretti a vivere ogni giorno. 


Il Libro

Titolo: La Ragazza di Teheran 

Autore: Maurice Bigio 

Casa editrice: Newton Compton 

Pagine: 283 

Prezzo: 9.90 euro (disponibile anche in ebook a 4.99)

Data di pubblicazione: 18 aprile 2013 






  Trama

Può un silenzio essere più assordante di mille parole? 

Shirine è un avvocato che si batte per difendere le vittime oppresse dal regime totalitario dell'Iran. La sua, però, non è solo una battaglia pubblica e legale. Shirine ne combatte un’altra, privata e quotidiana all’interno delle mura domestiche. Suo marito Shapour, importante fisico atomico che si occupa degli studi sul nucleare in campo bellico, nonostante abbia studiato negli Stati Uniti, si rivela ben presto un tradizionalista, un fanatico religioso che si oppone fermamente all’impegno sociale della moglie. Cerca, perciò, con tutti i modi a sua disposizione, di ridurla al silenzio, al ruolo esclusivo di madre cieca e sorda che si occupi del loro figlio malato, Shantia, un bambino brillante, condannato però a una vita breve e alla paralisi progressiva. Shirine sa però che deve continuare a lottare, per sé, per il suo Paese e per offrire a suo figlio un assaggio di vita in cui le parole Libertà e Giustizia abbiano ancora un valore. Nell'Iran dei diritti umani calpestati, una donna coraggiosa è disposta a rischiare quel che ha di più caro per difendere la causa degli oppressi. 


La critica

“La ragazza di Teheran è un bell’affresco, contraddittorio ma realistico, dell’Iran attuale e, soprattutto, del destino di una donna eccezionale. Favoloso”. 
Page des Libraires 


Per saperne di più 

La pagina del sito Newton Compton dedicata al libro, in cui è possibile scaricarne un estratto.


L’autore 

Maurice Bigio è nato a Il Cairo, è un medico radiologo che vive e lavora in Francia, osservatore particolarmente attento della realtà mediorientale. La ragazza di Teheran è il suo primo romanzo.

domenica 17 marzo 2013

Donne che parlano alle donne (e agli uomini). "I'm Woman"

Il progetto nasce dall'idea della scrittrice Desy Giuffrè, che cercava un nuovo modo, immediato ma, nello stesso tempo, profondo e mai banale, di raccontare le donne nella Storia e nel mondo. 
E' nato cosi "I'm Woman", a cui ho avuto il piacere di partecipare attivamente con un articolo sulle "Donne in Oriente" fra tradizione e modernità e tra passato e presente. 
Potete leggerlo sul sito di Desy, "Holly Girls", che ospita l'iniziativa. 
Buona lettura :-)

venerdì 8 marzo 2013

8 marzo

8 marzo: un giorno di riflessione, per me, che vorrei condividere con voi attraverso il racconto breve che ho scritto pensando a questa occasione. 
Potete leggerlo sul mio blog "Divine Ribelli".
Buona lettura e buon 8 marzo :-)

venerdì 11 gennaio 2013

“Emina” di Cristina Trivulzio di Belgioioso

“Emina” è un commovente romanzo scritto dalla principessa Cristina Trivulzio di Belgioioso più di un secolo fa e ristampato solo nel 1997. Non è un’opera famosa, purtroppo e merita davvero di essere riscoperta.

La stessa autrice, affascinante e colta patriota italiana, è stata condannata dalla Storia ad un immeritato oblio. “Emina” è il primo romanzo della trilogia “Scénes de la Vie Turque”, ambientata nell’Asia Minore, proprio nei luoghi in cui la principessa di Belgioioso visse, da globetrotter ante litteram qual era, o visitò durante esplorazioni e pellegrinaggi. Le altre due opere sono, nell’ordine: “Un Principe Curdo” e “Le Due Mogli di Ismail Bey”

“Emina” è la storia di una bambina data in sposa ad un bey, Hamid, con il quale suo padre ha un enorme debito quasi impossibile da saldare. La giovane si ritrova, cosi, da semplice pastorella libera di vagare per i campi e le montagne a giovane moglie intrappolata tra i possenti muri di un harem

La vita non si preannuncia facile per l’ingenua Emina: nonostante la sua intelligenza ed il suo modo di vivere profondo, responsabile, devoto ed in costante sintonia con la natura che la circonda, tanto da farla apparire al lettore più matura dei suoi anni, la giovane non ha l’esperienza e la determinazione necessarie per affrontare le invidie e le gelosie che regnano sovrane in un harem.

Fin da subito, infatti, diviene il bersaglio preferito della prima moglie del bey, l’intrigante calcolatrice Ansha. Emina non trova conforto neppure nelle attenzioni del marito, che rasentano il paternalismo e l’indifferenza. 

L’autrice mette in evidenza l’inadeguatezza della protagonista ad un ruolo e a delle regole che le sono estranee e di cui non può capire le origini e la portata. Con il tempo, inoltre, la mancanza di comunicazione e complicità tra Emina e Hamid si fa ancora più profonda a causa dei mutati sentimenti della giovane sposa nei confronti del consorte; il timore viene sostituito dall’affetto che, lentamente, si trasforma in amore non ricambiato.

La situazione sembra non avere alcuna via d’uscita; Emina non riesce a spiegare i propri sentimenti ed i suoi tentativi di ottenere attenzioni portano a risultati opposti. Il destino, però, è imprevedibile. Può dare e togliere nello stesso tempo… 

Nel romanzo è costante la presenza dell’autrice che dedica ampio spazio alle descrizioni dei luoghi, dei personaggi e degli usi turchi, interrompendo la narrazione. Alla fine, quando Cristina di Belgioioso ed Emina si incontrano le loro due anime tanto diverse si fondono nella solidarietà femminile, nell’essere donne che hanno alle spalle un vissuto e parecchie sofferenze. 

“Emina” è un’opera molto diversa da quelle a cui siamo abituati oggi: non c’è ricerca di suspence, né di avventura e l’azione dei personaggi è piuttosto ridotta. La narrazione scorre grazie ad uno stile fluido ma non veloce

La già citata “intromissione” dell’autrice nella storia rallenta il ritmo, ma il lettore non ha mai la sensazione di noia o pesantezza. Si potrebbe dire che in questo romanzo è più forte l’attenzione verso i pensieri, le emozioni, insomma, l’interiorità dei personaggi che quella verso i loro gesti. Ogni atto è preceduto da una motivazione psicologica ben precisa che Cristina Trivulzio spiega con dovizia di particolari ad un lettore che non conosce gli usi e i costumi dei popoli dell’Asia Minore

Molto intensa ed interessante è l’immagine che l’autrice ci restituisce delle donne orientali: solo apparentemente sottomesse, in realtà sveglie, astute e piene di voglia di vivere. Nei suoi viaggi ella approfondì la conoscenza con molte di queste, studiandone le opinioni ed il modo di vivere e schierandosi dalla loro parte, a favore dell’emancipazione femminile, come evidenziato anche dai temi trattati in “Emina”

Cristina Trivulzio di Belgioioso seppe dare voce e comprendere nel profondo queste anime rinchiuse in gabbie dorate e considerate troppo spesso, dai viaggiatori occidentali, sensuali odalische passive, oggetti senza intelletto nelle mani dei loro padroni. 

Riscoprite la trilogia di Cristina Trivulzio, una donna anticonformista che rifiutò tutta la vita di assecondare le convenzioni sociali. Vi appassionerete ai suoi personaggi, alle sue storia ma, soprattutto, a lei. 


Il Libro

 
Titolo: Emina 

Autore: Cristina Trivulzio di Belgioioso

Casa Editrice: Luciana Tufani Editrice 

Pagine: 162 

Prezzo: 12.91 euro

Anno di pubblicazione: 1997 



Sinossi

Emina è uno dei tre racconti di Scénes de la Vie Turque, la raccolta ambientata nella regione dell’Asia Minore dove Cristina Trivulzio aveva vissuto per anni. Al centro dei racconti è la vita di donne dell’harem. Emina, la protagonista di questo romanzo breve, è una povera pastorella, data in sposa ancora bambina ad un bey, che si trova ad affrontare, senza sapersi difendere, l’ostilità della prima moglie del bey e che rimane vittima degli intrighi della rivale, ma anche dell’insensibilità del marito e soprattutto di una società alle cui regole è estranea.


Per saperne di più

Il mio articolo sul blog “Divine Ribelli” dedicato a Cristina Trivulzio di Belgioioso. 
La pagina dedicata all’autrice sul sito di Luciana Tufani Editrice.
La pagina dedicata al romanzo sul sito di Luciana Tufani Editrice.  


L’Autrice 

Donna affascinante, intelligente, indipendente, Cristina di Belgioioso (1808-1871) aveva troppe qualità da farsi perdonare. Per questo, dopo una vita avventurosa e nomade, venne quasi dimenticata. Fu una delle protagoniste della vita politica e culturale dei suoi tempi. Partecipò attivamente al Risorgimento e per questo venne costretta all’esilio. Visse a lungo a Parigi ed in Turchia. Giornalista e scrittrice, pubblicò articoli su numerosi giornali, tra cui Revue des Deux Mondes e diresse la Gazzetta Italiana e L’Ausonio. Scrisse saggi di politica e storia, resoconti di viaggio e racconti. Tra le sue opere si possono ricordare “Il 1848 a Milano e Venezia” e, nello stesso volume, “Della Presente Condizione delle Donne e del loro Avvenire” (Feltrinelli, 2011), “Ricordi dall’Esilio” (Paoline, 1978) e “Vita Intima e Nomade in Oriente” (Ibis, 1993).

domenica 25 novembre 2012

Umm Kulthum. La Voce d’Egitto

Non esiste una cantante più famosa ed amata di lei nel mondo arabo. La sua voce potente, i versi struggenti e la gestualità elegante l’hanno resa una icona riconoscibile ed indimenticabile: Umm Kuthum (1904-1975) è e sarà sempre la Voce d’Egitto e l’anima musicale di tutto il mondo arabo. Le fonti sono discordanti riguardo la data di nascita, ma l’ipotesi più probabile è il 4 maggio 1904. 

Fatima Ibrahim Al Biltagi, questo il vero nome di Umm Kulthum, nacque in Egitto, nella città di Al-Sanballawayn, da una famiglia di umili origini. Fin da piccola Fatima dimostrò un grande talento per il canto, al punto tale che suo padre, all’epoca direttore di una piccola compagnia teatrale, la fece travestire da ragazzo per permetterle di esibirsi.

 All’età di 23 anni, dopo essere stata notata dal cantante Abu El Ala Mohamed e dal liutista Zakaria Ahmed, si trasferì al Cairo. Lì fece l’incontro più importante della sua vita, quello con il celebre poeta Ahmed Rami (1892-1978), che scrisse ben 137 canzoni per lei, versi che divennero immortali. Il 1932 fu, per Umm Kulthum, l’anno dell’ascesa trionfale: iniziò tournée in grandi città come Baghdad, Tripoli e Damasco, ottenendo un grande successo

Nel 1948 arrivò ad incontrare il presidente egiziano Nasser e da quel momento la sua fama non conobbe battute di arresto, sostenuta anche da un grande amore per l’Egitto e dal fervente patriottismo di cui erano intrise le sue canzoni. 

Si sposò nel 1953 con il medico Hassan Al Hifnawi, facendo includere nel contratto matrimoniale una clausola che le avrebbe permesso, qualora fosse stato il caso, di divorziare. 

Ammirata anche in Europa, lo stesso De Gaulle non fece mistero di apprezzare la sua arte, continuò a cantare divenendo una vera e propria icona musicale e di stile. Tentò anche la carriera di attrice, ma l’abbandonò quasi subito, poiché non le dava le stesse emozioni che provava sul palco.

Ammalatasi di nefrite, si trasferì negli Stati Uniti per curarsi. Quando divenne evidente che la sua malattia era inoperabile, nel 1975, rientrò in Egitto. Venne ricoverata tra le accorate preghiere degli egiziani e si spense al Cairo il 3 febbraio di quello stesso anno. 

Al funerale un fiume umano di 10 Km accompagnò il feretro dalla sua casa fino al cimitero. L’Egitto e l’intero mondo arabo si fermarono per dare l’ultimo saluto alla donna che aveva cantato l’amore in ogni sua sfaccettatura, allo stesso modo in cui, quando era in vita, il Parlamento egiziano interrompeva ogni attività politica pur di poter ascoltare i suoi concerti alla radio. 

Umm Kulthum aveva una voce ed una presenza scenica eccezionali: oltre alla tecnica, impeccabile, con la quale modulava ogni singolo suono, talvolta quasi salmodiando, possedeva anche una rara capacità di improvvisazione, che le consentiva di arricchire ogni canzone con vibrazioni diverse.

Umm Kulthum era una perfezionista; amava migliorarsi, dare ogni volta il massimo e non fece mai mistero della severità con cui giudicava se stessa e le sue esibizioni. Creò dal nulla uno stile ed un repertorio, circondandosi di poeti e compositori tra cui il già citato Rami e Bayram Al-Tunisi. 

Salmodiò con la stessa grazia e naturalezza i versi del Corano e quelli del poeta persiano Umar Khayyam. Le sue canzoni sono letteratura in musica, vere e proprie liriche dedicate all’amore tra innamorati, alla passione, al desiderio di indipendenza del popolo ed al sentimento patriottico e di lealtà verso l’Egitto.

In poco tempo le si schiusero le porte del Palazzo reale e dei salotti più importanti. Umm Kulhum stregò generazioni di arabi (non solo egiziani) ed i suoi dischi sono venduti ancora oggi. Non è una esagerazione definirla una leggenda. Inoltre fu una self-made woman dal carattere forte ed orgoglioso.

Imparò fin da subito a tenere ben nascosta da sguardi indiscreti la vita privata e selezionò accuratamente ogni intervista, scegliendo addirittura gli argomenti di cui avrebbe parlato. Non accettò mai di essere definita uno “strumento di propaganda” dei regimi, o una donna senza sentimenti. 

Era determinata ed innamorata dell’Egitto, incapace di accettare passivamente che qualcuno decidesse della sua vita o della sua carriera. Seppe, insomma, “amministrarsi”, curando le relazioni sociali e scegliendosi gli amici tra i meno “mondani”. 

Ascoltate le sue canzoni: scoprirete un’artista meravigliosa e dotata di grande personalità, una musica travolgente, dei testi pieni di sentimento ma per nulla sdolcinati ed un modo particolare ed indimenticabile di cantare. 

Un gioiello prezioso e molto raro: Umm Kulthum il diamante d’Egitto. 


Per saperne di più 

V.L. Danielson, “The Voice of Egypt”: Umm Kulthum, Arabic Song and Egyptian Society in the Twentieth Century", Chicago 1997;

Biancani Francesca, “Umm Kulthum. La Voce degli Arabi”, ed. Odoya, 2010; 

Nassib Selim, “Ti ho amata per la tua Voce”, E/O, 1997.